Newsletter Futura - Tutte le nostre precarietà | Corriere.it

2023-03-16 16:49:54 By : Mr. Tracy huang

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migrazioni La distanza come forma d’amoreOlga Campofreda

rifugi In coda per la casa popolareSabina Montevergine

Una (bellissima) poesia di Elizabeth Bishop fa così: «Allenati a perdere di più, senza paura, luoghi e nomi e destinazioni di viaggio». La precarietà è un esercizio quotidiano, un gioco a ridurre e a dimenticare, a non appesantirci per non dover soffrire, dopo, delle perdite. E voi, siete in allenamento? Siamo la redazione di Futura. Scriveteci: Davide (dacasati@rcs.it), Renato (rbenedetto@rcs.it), Andrea Federica (andreaf.decesco@gmail.com) e Roberta (rscorranese@rcs.it).

A una donna che sceglie di vivere lontano da casa, la gente chiederà ogni volta quando abbia intenzione di tornare. A una che ha deciso di abitare il movimento, chiederanno invece quando deciderà di fermarsi. Il fastidio per colei che travalica i confini di continuo me lo sento spesso addosso nello sguardo di chi non riesce a collocarmi, eppure lo vorrebbe; di chi mi guarda come un’anomalia. Trovo spesso difficile spiegare quanto per una donna proprio la distanza possa rappresentare una forma d'amore, e in questi casi allora c'è una storia che racconto sempre. Nella primavera del 2019 mi trovavo negli Stati Uniti per una conferenza di Italian studies e avevo deciso di fermarmi qualche giorno a New York per salutare un'amica. Io e Lorenza ci eravamo conosciute a Londra durante gli anni del dottorato, poi lei aveva vinto un posto da ricercatrice e aveva lasciato l'Inghilterra. Ci eravamo subito volute bene: eravamo due soggetti nomadi, una generazione che dello sconfinare aveva fatto un moto perpetuo non per necessità ma per scelta, anche se entrambe ci trovavamo spesso a fare i conti con un certo senso di colpa. L’idea di prendere una nave per Ellis Island la mattina dopo era stata sua. Ci puoi scommettere che nei registri troviamo qualcuno. Ci siamo passati quasi tutti, aveva detto. Si riferiva ai faldoni dei passeggeri che negli anni delle grandi emigrazioni erano transitati da lì, in attesa di essere ammessi sul territorio americano. Lorenza sapeva che non le avrei detto di no. La sera prima, ancora ebbra di jetlag, dopo averla sentita parlare del suo progetto di ricerca sulla comunità italoamericana, le avevo raccontato del ramo argentino della mia famiglia e di quello di statunitense: due cugini che erano partiti insieme e poi si erano separati sul continente. Decine di storie si erano dipanate a cominciare solo da due ragazzini che un giorno avevano scambiato la retorica della necessità col linguaggio dell'avventura. Quando arrivi a Ellis Island dalla costa vieni immesso dentro un grande edificio che assomiglia a una vecchia caserma. Il percorso è fatto a tappe, perché di stanza in stanza si fa esperienza dei controlli a cui i passeggeri dovevano essere sottoposti. Alla fine del tour siamo entrate nella sala dell'archivio ed è stato allora che ho incontrato Eleonora per la prima volta: il nostro cognome uguale se ne stava inciso tra le righe di una griglia, incastrato tra quello di altri lontani prozii di cui avevo a lungo sentito parlare da bambina. Sul documento c'era scritto che nel settembre del 1927 la passeggera era partita dal porto di Napoli e aveva attraversato l'oceano da sola insieme a un figlio adolescente. Al momento dell’imbarco Eleonora aveva trentadue anni, e questo dettaglio mi aveva commosso. Era la stessa età che avevo io in quel momento: io che osservavo il registro e me la immaginavo spaventata e stanca attraversare il pontile della nave, e poi scendere al porto, col ragazzino accanto e le valigie pesantissime tra le mani. Ricordo in quel momento di aver guardato le mie, di mani, per riflesso. Per quanto differenti per generazioni e vicende, ho riconosciuto in quell'antica coetanea le tracce del mio stesso movimento in transito da una vita all'altra. C'era qualcosa nei nostri viaggi - nelle nostre distanze - a renderci diverse da tutti gli uomini della nostra famiglia che avevano percorso la stessa strada. Eleonora era una donna sola diventata madre troppo presto, io una donna sola che probabilmente madre non sarebbe diventata. Siamo state bambine, poi signorine, poi qualcosa di non più definito. Una storia dalla trama sbagliata, un disegno dai colori che scavalcano i margini e si rifiutano di aderire. Per molte donne dell'Italia del Sud, la vita ancora oggi è un romanzo di formazione privato, scandito da riti di passaggio ben precisi: entrambe - la passeggera e io - avevamo infranto quelle leggi in tanti modi. Quella sera a New York sul letto con la mia amica Lorenza ci siamo chieste perché Eleonora fosse partita. Se a darle quel bambino fosse stato un amore gentile o violento, desiderato o imposto, scandaloso, fedele oppure fedifrago. Oltre a quei pochi dati, della ragazza non avrei più trovato niente: non c'era traccia di lei nel mio albero genealogico. È per questo che da un po' di tempo ho deciso di portarla con me nei miei ritorni, raccontando quella parte della storia che l'archivio non dice. La donna nomade, la donna che si sposta, è un mito che ha poco a che fare con quello del pioniere, ma neanche del tutto aderente all'idea della fuga. La parabola di una ragazza che si allontana non sempre è quella di una persona che sta scappando via. Il suo destino coincide con quello di chi finalmente sta tornando a se stessa in un mondo diverso, un mondo in cui sentirsi imperfetta è solo un'altra possibilità per dichiararsi libera. Olga Campofreda è in libreria con «Ragazze perbene» (NN Editore)

La coda inizia negli uffici dell'Aler e si snoda per tutta viale Romagna, fino quasi la metro Piola. Io ho il numero 16 in mano, lettera D. Potrebbe volerci tutta la mattina. Ho messo i gemelli nel passeggino, con le gambine che toccano quasi a terra, e ingombro tutto il marciapiede. Ma nessuno si lamenta. Campionario umano: famiglie al completo, con figli di tutte l'età, nonna in carrozzina, o vecchi zii da tenere per mano per non perderli; signore anziane, sedute sui panettoni, con l'uncinetto in mano, ragazzi, non troppo giovani, barba lunga, cani che abbaiano, ragazze con cappotti tirati su pance enormi, tutte le nazionalità, egiziani, peruviani, italiani, turchi, rumeni. È ancora presto, abbiamo le facce assonnate, le voci sembrano carta vetrata. La graduatoria per le case popolari riapre ogni due anni. Dalle chiacchiere si capisce che non è la prima volta, per nessuno. Per me è la seconda. «Quanti alloggi danno quest'anno?» «112». Il numero lo sappiamo tutti, è nel bando, ma ce lo chiediamo l'un l'altro, nella speranza di avere una notizia diversa. Qui in fila, siamo più di quattrocento. Noi abitiamo già in una casa dell'Aler. Nella zona San Siro sono stati costruiti gli alloggi popolari alla fine degli anni Settanta: palazzi interi, non agibili, non assegnati, quasi tutti occupati. Si paga qualche centinaio di euro alla signora Teresa della scala A. È come se fosse la portinaia, ma ti riceve affacciata alla finestra del primo piano, nascosta tra le piante grasse. È lei che ti assegna la casa, da occupare. Poi devi cambiare la serratura e tenerci poche cose, meglio se dentro gli scatoloni, perché periodicamente i carabinieri ti sfrattano: entrano di giorno, senza preavviso, ti portano via tutto e chiudono la porta coi mattoni. La prima volta nessuno mi aveva detto che sarebbe successo. In quel periodo, facevo il turno di notte in ospedale e i gemelli, piccoli, dormivano da mia madre. Sull'autobus 49 mi si chiudevano gli occhi, la testa appoggiata a un sacco pieno di pannolini che l'infermiera di ostetricia mi aveva messo da parte. Quando mi trovai davanti alla porta murata pensai di aver sbagliato piano. Ripresi l'ascensore e schiacciai il numero due: l'ascensore fece un rumore vuoto, e non si mosse. Era proprio casa mia. Citofonai a Teresa che si affacciò alla finestra: «Sono passati i carabinieri.», scrisse un indirizzo e mi mandò al deposito. Corridoi composti da scaffali alti quattro, cinque metri, pieni di sacchi, mobili smontati, lampadari, divani. Tutta la nostra vita era stata messa lì, su uno scaffale di ferro. Provai a fare la conta delle cose sparite: una scatola con tutti i gioielli di quando ero piccola, quando si usava pucciare i dentini nell'oro e regalare madonnine e crocette per la prima comunione, la televisione, il girello. Portai a casa quello che potei: due sacchi pieni di vestiti dei gemelli, le copertine che avevo fatto all'uncinetto quando ero incinta, il fornello per cucinare, gli album delle foto. Francesca mi aiutò a caricare sulla sua macchina la poltrona e i due lettini con i materassini arrotolati. Così capii che era meglio tenere tutto già diviso nelle scatole. Diventava più facile recuperarle al deposito, fare la cernita di cosa era sparito. In quale scatolone c'è la caffettiera? Gli stivali? La mia dignità? Pagare ancora Teresa e anche un extra per il figlio che con un grosso martello tirava giù i mattoni. Ricominciare. La fila dietro di me si allunga e quella davanti è sempre uguale. I gemelli iniziano a frignare, ma se li avessi portati all'asilo sarei arrivata ancora più tardi. La piccola mi riempie di domande: Nella casa nuova avrò la cameretta? Quella signora ha un figlio nella pancia? Ma tutti questi vogliono una casa? Al maschietto dò un biberon con il succo di mela. Una ragazza, capelli tinti di rosso e un bimbo appoggiato all'anca, attacca bottone: «Io sto con i miei genitori. Dormiamo sul divano». «Siamo solo noi tre», risposi. C'è sempre quel momento in cui qualcuno vuole dirti chi è e sapere la tua storia. Si fa a gara a chi sta peggio, ci si misura a vicenda, piccole iene stanche: sono da sola con due figli illegittimi (punto per me). Suo figlio è disabile (punto per lei). Genitore invalido, vince lei. Io ho un lavoro a tempo indeterminato, mi vergogno a dirlo. Ho anche studiato. «E che ci fa una studiata nelle case popolari?» Suo figlio deve fare la pipì e inizia a lamentarsi, la ragazza coi capelli rossi lancia i moduli a terra. «Tanto non cambia niente», va via. Il cielo di marmo bianco. Inizia a fare caldo. Mio figlio gioca con un cubo di Rubik che la nonna ha trovato tra le cose di quando ero piccola, gli accarezzo i capelli, mentre la femmina continua l'interrogatorio: «Mamma ma ce la danno questa casa, sì o no?». A volte non so se è compito di noi genitori infondere nei bambini un senso di speranza, la certezza che se anche oggi non va come speriamo, esiste un domani in cui andrà meglio, oppure se dobbiamo abituarli fin da piccoli alle ingiustizie del mondo. Mi abbasso a darle un bacio sulla manina. «Non oggi» rispondo.